Riflessioni sul Coronavirus
- p. armenti
- 5 apr 2020
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 6 apr 2020
Il 2020, l'anno "funesto" come dice mio nonno, ce lo ricorderemo come l'anno della reclusione forzata nelle nostre case, a causa del CoronaVirus. Un nuovo organismo che sta pervadendo, intimamente, ognuno di noi. Una minuscola particella, che ha fatto saltare tutti i piani: dall'organizzazione delle vacanze alla ripetitiva quotidianità. Tutto il nostro (patetico) sforzo di contenere, e contenerci, in un programma che non avesse buchi, che tenesse insieme tutto, o perlomeno il tutto come inteso da ognuno da noi. Lavoro, scuola, progetti, decisioni. Tutto rimandato. Tutto congelato. O forse perso. Tutti quei nostri felici pacchetti ci tenevano al sicuro, ben lontani dal toccare la nostra castrazione e, soprattutto, ci tenevano al riparo della dimensione della morte. Un tempo come il nostro, o meglio il tempo prima del Corona virus, era il tempo della pienezza artefatta, il tempo delle cose ci risucchiava, costringendoci a vivere sempre con due mesi d’anticipo, e non badando ai nostri anni. Cure miracolose, ricerche scientifiche straordinarie (per fortuna, eh!), doppi trapianti, ci facevano godere di una salute migliore, quasi non prendendo più in considerazione l’idea di morire di malattia. Era il tempo della collettiva amnesia. L’epoca della possibile esclusione della morte. L’epoca della possibile salvezza che spazzava via la morte, che la faceva apparire lontana, quasi aldilà di noi, come se non appartenesse alla nostra dimensione. Come scrive Ernaux “l’infinito smetteva di essere immaginario, ecco perché era inconcepibile dirsi che un giorno saremmo morti[1]”. Quel piccolo virus, invece, ha irrotto traumaticamente e, nell'ordine del Reale, ci ha sbattuto di fronte alla morte, alla sua materialità. Un qualcosa di non pronunciabile anche per la generazione adulta, che non sa come giustificare o arginare, o affrontare. Ma i nonni sì. Proprio quei nonni che muoiono. Loro insegnano e tramandano la saggezza dell'importanza della pazienza e dello stare nel tempo che si sta vivendo, adeguandosi, che non vuol dire sottomettersi. Forse andavano ascoltati di più dai loro figli. Oppure, è proprio questo il compito dei nipoti, invece. Loro che hanno visto la 'febbre spagnola', ad esempio, portare al camposanto piccole bare bianche, piccoli gemelli seppelliti insieme. Loro sì che l’hanno vista la morte, che ne hanno sentito l’odore. Così come quello della fame. Oggi, invece, la certezza delirante di essere infettati dall'altro, si fa Reale. La paura di incontrare l’altro viene simbolicamente sancita come legge. Le manie trovano il loro pieno godimento e la loro piena giustificazione. Quei battiti accelerati del panico ora si accentuano e ne forviano le risposte. I detenuti si sganciano da ogni forma di aderenza con la realtà. Gli immigrati continuano a raccogliere verdura, senza assicurazione, figuriamoci le cure. Non ci sono solo le coppie che accelerano le loro separazioni, per intenderci. Quello che si può dire, per ora, è che ognuno vive l'angoscia di morte a suo modo e ognuno, come la psicoanalisi insegna, ne può dire solo a suo modo e, prima di tutto, col suo tempo. Uniti su un balcone a cantare è un conto, ma non dimentichiamoci che non siamo mica tutti uguali!
[1] Ernaux A., Gli anni, L’Orma Editore, Roma, 2015.
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